L’Italia come laboratorio visionario di rigenerazione urbana

 

di Redazione OAR

Penultima giornata di SPAM alla Casa dell’Architettura per disegnare i tratti dell’Architettura Visionaria, considerata spesso lontana dal reale e dal realizzabile. “L’utopia ha sempre generato grandi espressività e forme negli ambienti urbanizzati, ma il pragmatismo rende la città della visione un luogo per il bene comune” osserva Vincenzo Latina, architetto pluripremiato e professore universitario. “E’ il posto familiare e sacro dove c’è spazio per ognuno”.

La visione, che a volte assume un’accezione onirica, diviene terrena e materiale quando si fa largo l’architetto, che compie un atto intellettuale a partire dall’esistente. “Non si parte mai dal foglio bianco – spiega Gianluca Peluffo dello studio Peluffo & Partners, uno anche dei tutor del workshop – al di là dell’atteggiamento reazionario o nostalgico nei confronti del passato, l’architettura raccoglie le tracce di chi è passato prima e le compone alla luce di una visione nuova, vero destino del nostro mestiere”.

Emerge dunque il superamento del progetto autoreferenziale, icona del design e lontano dalle persone e dai luoghi. Il ritorno ad un atteggiamento “sciamanico” di chi vuole andar a sentire le vibrazioni di un contesto per tradurle con creatività ben si addice all’Italia, paese dai molteplici paesaggi e dalle diverse realtà abitate. “È finito il tempo dell’architettura spettacolare che dura esattamente l’attimo di una rappresentazione” commenta Mateus. Concorde Latina: “La collettività è abbagliata da un’immagine paradisiaca dell’architettura.  È la dittatura dell’Eden in terra”.

“Jean Nouvel credeva che l’architettura avrebbe seguito il design in un processo di smaterializzazione, come accaduto per le tv con il tubo catodico sostituite poi da quelle al plasma. È fallita la supremazia della tecnologia che si era intestardita nel dover imporre un linguaggio – continua Peluffo – oggi fisicità, spiritualità e tracce esistenti sono la vera forma espressiva”.

Non saremmo però visionari se non ci legassimo all’idea di tempo, grande mistero che ci fa trascendere dall’immanenza per proiettarci in epoche future. Gli antichi romani furono sognatori allucinati nel pensare di poter dare forma architettonica al trasporto d’acqua. Eppure nacquero gli acquedotti.

“Il Pantheon, sublime nella sua concezione chiusa di caverna cosmica che è potenza dello spazio, diviene spettacolo visionario quando arriva l’elemento naturale pioggia, la cui acqua è accolta da piccoli occhi nel pavimento”, racconta Latina. Anche Peluffo legge pazzia visionaria negli antichi, che hanno aggiunto l’elemento pragmatico alla simbiosi di etica ed estetica: “Nelle Memorie di Adriano vi è la sintesi perfetta – continua – anche l’architettura contemporanea deve tenere insieme tempi diversi e farli percepire, attraverso archetipi o figure mitiche che fanno leva sulla memoria”.

Susanna Tradati, dello studio romano Nemesi, ci riporta all’oggi invocando una presa di posizione forte degli architetti: “E’ un momento delicato di passaggio dopo molti fallimenti. C’è voglia di riscatto. È cecità politica non dar seguito alle aspettative ed al fermento visionario attuale”.

Non sono esenti da colpe i professionisti che sono intervenuti nei paesaggi urbani in un recente passato: “Negli anni ’60 e ’70 sono stati costruiti pezzi di città inadeguati. A Roma abbiamo un 70% di periferia contro un 30% di centro, senza strategia a breve e medio termine” precisa Massimo Alvisi dello studio romano Alvisi Kirimoto. Intravede però speranze nella riqualificazione dello spazio pubblico, generatore di collettività e condivisione, a partire dal progetto che coinvolgerebbe molteplici figure professionali (sociologi, politici, architetti, agronomi, ecc.).

Dello stesso avviso Michele Molè, socio con Tradati dello studio romano Nemesi, che scarica le responsabilità: “Al di là di poche e lodevoli eccezioni, gli ultimi quarant’anni sono stati disastrosi e privi di qualsiasi visione. L’architettura romana si è rifugiata sull’Aventino, si è dedicata al disegno e ha lasciato campo libero alle grandi imprese, poco strutturate, e alle società di ingegneria”.

“Milano è un po’ la prima della classe, con un’azione centripeta molto accentratrice. È un bolide che consuma troppo carburante e lascia poco margine alle altre realtà – continua Latina – d’altra parte la città dei sogni non esiste se non nel nostro immaginario. Di per sé l’ambiente urbano è teatro di scontro e incontro, paradosso ed eterogeneità, sinonimo e contrario”. Per Alvisi invece c’è spazio per l’architettura visionaria nella capacità degli architetti di diventare antenna e sensore di ciò che c’è intorno per tradurlo e moltiplicarlo.

“Una DreamCity esiste nella misura in cui si dà forma ad una città virtuosa, in cui utile e bello si danno la mano in un processo di rigenerazione già intrapreso da molte capitali europee. Nella volontà dell’architetto di sporcarsi le mani, di entrare anche nella velocità e nella superficialità se queste sono presenti nella quotidianità” conclude Molè. (GV)

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