L’architettura di Borromini e Wright secondo Paolo Portoghesi

di Marco Maria Sambo

Mercoledì 8 maggio 2019, Casa dell’Architettura di Roma. Si conclude con un lunghissimo e scrosciante applauso la Lectio magistralis di Paolo Portoghesi su Borromini e Wright, evento che rientra nel ciclo di convegni intitolato “Ascoltare l’Architettura” a cura di Luca Ribichini, vicepreside della facoltà di architettura della Sapienza Università di Roma e presidente della Commissione Cultura Casa dell’Architettura.

Tutti in piedi, sala gremita, per omaggiare un grande architetto, professore e storico dell’architettura: Paolo Portoghesi si muove con agilità tra le pieghe della storia, cogliendone sfumature e strutture progettuali, percorrendo strade inesplorate.

Dopo i saluti di Ribichini e la prolusione di Marcello Fagiolo – presidente del Centro Studi sulla Cultura e l’immagine di Roma – che riflette sui tratti simbolici dell’architettura del XVII secolo e del moderno introducendo l’iconografia della spirale, da Sant’Ivo alla Sapienza del Borromini al monumento di Vladimir Tatlin per la Terza Internazionale, Portoghesi prende il microfono e, nell’assoluto silenzio della sala, comincia a parlare mostrando immagini.

Le architetture di Francesco Borromini e Frank Lloyd Wright vengono confrontate e analizzate in un continuo avanti e indietro nel passato, per scoprire tratti comuni e differenze, affinità e contraddizioni. I linguaggi sono svelati: non si tratta solamente di individuare caratteristiche formali simili delle visioni progettuali dei due maestri: Portoghesi cerca di trovare le radici profonde del loro fare architettura, andando a studiare le origini di questi due grandi architetti, ciò che hanno visto da bambini, l’ambiente in cui sono cresciuti, gli alberi sotto i quali hanno giocato da piccoli, il paesaggio che hanno respirato; per evidenziare una sorta di vicinanza ideale nell’approccio compositivo che nasce e cresce con le biografie di ciascuno.

Dunque la luce di Bissone, città natale di Borromini, come l’acqua del lago di Lugano, sono indispensabili per comprendere il suo rapporto stretto con la natura, rappresentano i fondamentali elementi naturali che costruiscono un modus operandi. Come il fare organico di Wright viene influenzato, fin da bambino, dai colori del territorio americano. Altre epoche, ambienti diversi, ma affinità elettive. Così la natura, con le sue sfumature di luce e colori che plasmano la materia, i rami degli alberi e le foglie, diventano un “legame analogico” che unisce secoli così distanti tra loro.

Ma sono esposte anche le differenze biografiche sostanziali, i caratteri stessi delle due personalità: da un lato Borromini, con una vita introversa e sofferente che si conclude con l’isolamento professionale e con il suicidio; dall’altro lato la vita convulsa ma scintillante di Wright, con il suo carattere dirompente, a tratti arrogante.

Una intensa narrazione, quella di Paolo Portoghesi, che passa inevitabilmente per l’analisi dello stile gotico, approdando alla sfida per la leggerezza della fabbrica d’architettura. In Borromini questo approccio si palesa talvolta con l’uso della diagonale e in altri casi nella dinamica spiraliforme come nella lanterna di Sant’Ivo alla Sapienza a Roma; si concreta, sempre a Roma, nella genialità delle forme naturali della facciata di San Carlino alle Quattro Fontane, per giungere alla “terribilità michelangiolesca” del palazzo della Propaganda Fide. In Wright la sfida è quella di raggiungere la leggerezza attraverso l’orizzontalità, come nelle Prairie House e nella Robie House di Chicago; istinto che arriva a svelare il carattere vitale e progettuale con “La Città vivente” – celebre libro-manifesto del maestro americano – ed assurge a dinamica naturale con il Museo Solomon R. Guggenheim di New York nel quale domina una continuità totalizzante. Perché è proprio il segno elicoidale che diventa più volte motivo di raffronto: dalla spirale di Sant’Ivo del ‘600 al Gordon Strong Planetarium progettato nel 1924 da Wright; e così via, in un flusso continuo di frammenti di riflessione.  Perché Portoghesi non arriva ad una conclusione, ma invita a ragionare su di una miriade di aspetti progettuali, storiografici, biografici, filosofici; fino a riprendere idealmente l’intervento iniziale fatto da Marcello Fagiolo – che introduceva al tema iconografico e simbolico del segno spiraliforme – con una indagine sulla “Turris Babel” di Athanasius Kircher, grande filosofo e storico tedesco del XVII secolo. Un processo che parte da lontano, dalle forme del simbolico, arriva a Borromini che riesce a trasformarlo in architettura, come Wright riesce a plasmare le sue visioni, ispirato anche lui dall’arcaico e dalla Torre di Babele.

È una dinamica complessa quella dei due architetti, fatta di tecnica e suggestione, di cantiere e ispirazione quasi visionaria. In questo approccio Paolo Portoghesi vede una sostanziale continuazione della cultura classica che porta però alla capacità di cambiare radicalmente le carte in tavola, attraverso il progetto e un fare chiaramente rivoluzionario: caratteristica che unisce Borromini e Wright nonostante le differenti meccaniche storiche in cui si vengono a trovare. Si tratta di un esercizio – quello di Portoghesi – che vuole portare alla luce non tanto la classicità ingessata di chi si rivolge al passato per crogiolarsi nella malinconia di un mondo che non esiste più, quanto il meccanismo che porta, con forza, a guardarsi indietro per scoprire un nuovo futuro: anche questo è un tratto comune, un legame analogico tra i due. Così la riscoperta del passato spinge verso percorsi nuovi, talvolta alla ricerca dell’arcaico come per Wright, con i contorni ideali della natura che emergono e diventano le cerniere che consentono di trasformare la storia in prefigurazione del futuro.

Paolo Portoghesi cita più volte Bruno Zevi, immancabilmente, raccontando lo scontro culturale avuto con lui proprio per l’interpretazione di Borromini, vicenda raccontata anche in una recente intervista apparsa su AR Magazine, rivista dell’Ordine degli Architetti P.P.C. di Roma e provincia (AR Magazine, numero 120, dicembre 2018, “Attualità critica di Bruno Zevi. Linguaggi del contemporaneo”, Intervista a Paolo Portoghesi, pp. 166-169, Architetti Roma edizioni – Qui potete scaricare gratuitamente il numero in formato pdf: http://www.ar-edizioni.it/prodotto/ar-magazine-120/).

Perché in fondo è proprio di linguaggio che si parla confrontando l’architettura di Borromini con quella di Wright, mostrando moltissime immagini, poetiche ed emozionanti, tra “invenzioni spaziali e geometrie della continuità”, così le chiama Portoghesi. Non sono solamente analogie formali ma metodologie spesso simili, come si trattasse di “materie pulsanti” che giungono ad una decorazione organica: “l’ornamentazione come svelamento di un principio poetico”.

Esempi su esempi, per una ricostruzione storica attenta, sul ‘600 e sul moderno: Paolo Portoghesi torna a parlare di luce, aspetto che unisce i due maestri nella definizione dello spazio. Ma la luce di Wright è il bagliore di un grande precursore – qui riprende le biografie degli architetti – mentre Borromini vive in un tempo che alla fine non gli permette di essere precursore ma al contrario lo porta, in un turbine continuo, a difendersi dai suoi detrattori che vedevano nella sua architettura “puzza di zolfo” e un fare quasi eretico.

Le piante di progetto di Borromini e Wright sono continuamente confrontate; prospetti e sezioni, fotografie, le immagini scorrono mentre Portoghesi le descrive e continua a raccontare analogie e differenze. Scopriamo che, mentre per il maestro americano l’uso della luce che plasma la fabbrica è una luce totalizzante e viene sempre dall’alto, “per Borromini la luce è metafisica, va decodificata, guidata”. Concetto ripreso anche dal capitolo sulla “Luce guidata” del suo celebre libro su Borromini (Paolo Portoghesi, “Francesco Borromini”, Electa, pag. 394 edizione 1990). Così le continuità plastiche, la morfologia, le strutture curvate, lo smusso, le soluzioni d’angolo, le interpretazioni spaziali, le dinamiche progettuali: tutto viene mostrato come se una linea immaginaria – che parte dal ‘600 e arriva al ‘900 – unisse idealmente i due grandi architetti.

Una Lectio che si conclude con un dibattito al quale prendono parte, tra gli altri, Marco Petreschi che parla di contemporaneità del messaggio di Wright e ricorda come il nostro tempo abbia dimenticato l’utopia; Piero Meogrossi che ricorda i disegni di Borromini per Roma ed incita alla riflessione per tornare ad avere un “sogno d’amore” per la città eterna ricominciando a fare utopia per la capitale.

Risponde Paolo Portoghesi, chiudendo il dibattito e sottolineando “la mancanza di una prospettiva di eternità” nel contemporaneo, élan vital attivo fino all’epoca dei maestri dell’architettura moderna. Parla di ottimismo zeviano che ora non esiste più perché “viviamo all’interno di un’utopia alla rovescia dominata dal denaro”; ed esorta tutti a ricostruire il “coraggio di ritrovare la natura, metterla di nuovo al centro della creazione”.

“Ai miei studenti – conclude – insegno a combattere, ma è una battaglia disperata (…) Dobbiamo tornare a costruire la città e pensare al noi, non solamente all’io”.

 

Marco Maria Sambo
Direttore editoriale di Architetti Roma edizioni e AR Magazine