Spiritualità e architettura: visioni intime e collettive

 

di Redazione OAR

Un tema profondo per la quarta giornata di SPAM e per certi versi molto controverso, quello della “Spiritualità”. Un discorso che non può non sfiorare temi come la religione, la condivisione, l’interiorità, la proiezione del sé che in qualche modo l’architetto ha il dovere di sintetizzare nello spazio. Ognuno a modo suo. Dal dibattito emergono infatti posizioni completamente diverse, manifestazione di un rapporto interiore e personale con ciò che è oltre il terreno.

“Così come i poeti non hanno mai inventato lettere nuove, ma hanno combinato quelle esistenti per dare vita a testi sublimi, noi architetti usiamo elementi assolutamente normali per andare intenzionalmente oltre la semplice costruzione” spiega Manuel Aires Mateus, che adora lavorare con gli archetipi. “La spiritualità però è la cultura intima, l’incontro profondo con ciò in cui crediamo”.

Ne fa anche una questione collettiva Salvator John Liotta dello studio parigino Laps Architecture: “Oggi le persone hanno bisogno di stare insieme. L’architettura, quando si interessa di spazi ad alta spiritualità, deve considerare sia chi utilizza l’edificio da solo perché è in cerca di un rapporto con Dio, sia chi vi si reca in compagnia perché vuole condividere un rito”. Emerge quindi una visione pubblica e sociale della mistica, che, tramite la traduzione in spazio esercitata dall’architetto, consente di non rimanere sconnessi dalla storia.

Polemica la posizione di Rudy Ricciotti intervenuto a favore di una posizione più riservata nei confronti del trascendentale. Un uomo con una visione disincantata della vita che accende la platea: “Il discorso sulla spiritualità è molto furbo, come scaltro è chi si nasconde dietro l’utopia che è come rinunciare al futuro. Non esiste una cosa più seria del parlare di spiritualità, che però resta un fatto molto privato. È volgare pensare che sia una cosa pubblica, noi facciamo un mestiere psicopatico e abbiamo responsabilità anche nei confronti dell’aldilà”.

Spiritualità dunque non solo come religione, ma anche come accezione laica di un fatto metafisico. Non è un caso che esistano molti luoghi di culto progettati da architetti non credenti (come Tadao Ando o Le Corbusier) con un afflato trascendente molto profondo. In genere le architetture pensate per avere un contatto con un dio sono anche quelle in cui entrando si avverte uno stato di benessere e un profondo senso di bellezza. Si pensi al fresco estivo che è possibile percepire nelle Chiese, anche quando la calura esterna è soffocante.

Allora tutto è spiritualità? Esiste una differenza tra un’architettura spirituale ed una che non lo è? Per Mateus è una questione di priorità: le relazioni prendono il posto delle immagini nel rapporto con gli spazi se si progetta un edificio di culto.

Paolo Valerio Mosco, architetto e professore universitario, assottiglia invece i confini tra materiale ed immateriale, considerando ogni grande architettura un essere che cura spiritualmente, che ti consente di riappropriarti di te stesso. “Un’idea salvifica di cui tutti i progettisti devono tenere conto”, conclude.

Impegnativo parlare a Roma di questo tema. Ci sono margini nella Capitale per parlare di spazio in rapporto con Dio? O tutto è già stato detto? “Roma è la nostra civilizzazione ed il miglior luogo per la spiritualità. Dobbiamo continuare a lavorare sulla religione – continua Mateus – perché il rapporto con un essere superiore definisce meglio l’architettura. Forse ora non è il periodo più felice, ma arriverà anche il momento di Roma”

Andrea Bartoli, consulente in progettazione strategica, fattibilità e gestione delle organizzazioni socio – culturali, impegnato anche a Favara con Farm Cultural Park un centro culturale indipendente, esorta gli architetti a non rinunciare a DreamCity: “Prima di sogna, poi si progetta e solo poi si costruisce. Un luogo è spirituale se entrandoci mi sento arricchito”. (GV)

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