di Redazione OAR
Il rapporto tra architettura contemporanea e trasformazione delle città chiama in causa aspetti molteplici e in continua evoluzione. Dagli “innesti” da inserire in modo corretto in contesti altamente stratificati, come quelli che caratterizzano i centri urbani italiani, alla valorizzazione del “bene comune”, anche attraverso la riqualificazione in aree periferiche e degradate. Sono alcuni dei temi di cui si è discusso al convegno “Architettura e trasformazione urbana”, organizzato da Ance, dalla rivista L’industria delle costruzioni – con la presentazione del numero monografico “Rassegna italiana: sguardi sul futuro” – e da Ordine degli Architetti di Roma presso la sede nazionale dell’associazione costruttori a Roma. Tra gli ospiti, i curatori del Padiglione Italia di alcune delle ultime edizioni della Biennale di Venezia, studi e professionisti di alto profilo come Raul Pantaleo di TAMassociati (padiglione 2016), Cino Zucchi (2014), Luca Molinari (2010). Presentato il numero
Ad aprire i lavori sono stati Gabriele Buia, numero uno di Ance, e Luca Ribichini, presidente commissione Cultura Casa dell’Architettura. “La crisi economica ha accelerato processi di cambiamento delle città – ha detto il presidente dei costruttori -. E questo deve stimolare il dibattito sulla trasformazione urbana. Oggi non ci sono norme che permettono di dare riscontro a queste necessità: i cambiamenti sono rapidi, servono risposte rapide”.
Per trovare strade percorribili e soluzioni condivise occorre cercare una unità d’intenti. “Sulla trasformazione urbana – ha osservato Ribichini – dovremmo seguire l’esempio di Barcellona, dove tutte le forze sane della società si sono ritrovate ad agire insieme: architetti, ingegneri, la parte imprenditoriale e quella amministrativa. Occorre riuscire a tenere insieme tutti i pezzi e comprendere l’importanza del senso di comunità”
Il tema della trasformazione delle città è stato declinato in modo diverso dagli architetti coinvolti. Per Cino Zucchi il concetto cardine – riprendendo il tema proposto alla XIV Biennale – è quello degli “innesti”. Tanti gli esempi portati: da Helsinki (Keski Pasila Masterplan) al Portello di Milano. “L’innesto – ha spiegato l’architetto – deve ‘conoscere’ in modo approfondito l’organismo su cui si va ad innestare. L’Italia è caratterizzata da un territorio urbano così stratificato che impedisce di utilizzare l’elemento sistematico del moderno internazionale. Occorrono strategie più complesse”.
“Lavorare sul bene comune”, invece, è la chiave di lettura introdotta da Raul Pantaleo, di Tamassociati, in linea con l’impegno portato avanti dallo studio nelle proprie realizzazioni in giro per il mondo. Una sfida che può tradursi, in concreto, “nella capacità di riutilizzare beni dismessi o abbandonati anche in zone di elevata marginalità”. L’architettura, ha rimarcato il progettista – “può attivare processi di vera trasformazione e riattivazione sociale sui territori urbani. Con piccoli budget, si possono realizzare luoghi e spazi belli: il ruolo dell’architetto può fare la differenza anche nelle aree più difficili”. Tra i casi citati, gli interventi a Ponticelli (Napoli) e Milano con Emergency: edifici abbandonati trasformati in presidi sanitari e socio-culturali.
Per Luca Molinari, docente presso l’università degli studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, per gli interventi nelle città c’è bisogno di una “radicalità gentile, che mostri capacità di ascoltare, di lavorare alla scala dell’uomo ed esercitare il pensiero critico. Oggi, occorre ripensare la città come luogo di relazioni, abbattendo confini e cancellando limiti. Usare l’immaginazione per eliminare tutte le barriere, lavorando su nuove comunità. Intervenire su quello che c’è di abbandonato, che rappresenta una risorsa fondamentale. Chiedere ad amministrazioni e imprenditori di avere il coraggio della visione”.
Un luogo dove scelte e riflessioni riguardanti la trasformazione urbana potranno concretamente trovare applicazione è l’area di Genova colpita la scorsa estate dal crollo del Ponte Morandi. A fare un report aggiornato della situazione è stata Carmen Andriani, del Dad – Università degli studi di Genova. “Nella Val Polcevera – ha osservato – “si incontrano tutte le questioni principali di cui si è discusso, tra le quali: riuso del patrimonio industriale dismesso, modularità degli ‘innesti’ da inserire nel contesto esistente, ma anche i temi delle infrastrutture e dell’entroterra. E’ l’occasione di mettere in pratica una visione inclusiva dell’architettura, con gli architetti che dovranno assumere un ruolo di mediazione”.
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